Un laboratorio per le generazioni di complessità

Tre anni fa ho partecipato ad un convegno su 'Antropocene e complessità'. Ora mi trovo a scrivere un pezzo sulle conseguenze che le considerazioni sviluppate allora possono avere sulle pratiche formative del presente, a livello universitario e in ambito pedagogico (in senso lato). Ne profitto per rinfrescare e aggiornare il quadro delle conoscenze di cui dispongo, relativamente all'area, anzi alle due aree in questione.
Parto dalla presa d'atto di di non poter escludere, per questo impegno di elaborazione, come per altri che ho in programma, la problematica dell'intelligenza artificiale. Per ragioni sia di teoria, perché mi mette a contatto con un livello di sapere collettivo e connettivo che altrimenti non saprei come e dove individuare, sia di pratica, perché, anche se non voglio ricorrere al suo aiuto, lei, che ormai sta dentro di me, come dentro a noi tutti, agisce e influisce su quel che penso, sono, faccio.
Volendo muovere le mie pedine, ossia i concetti con cui ragionare, su un tema, l'antropocene, che si colloca in una zona di confine fra l'organizzazione del sapere accademico e la fluidità dell'immaginario sociale e intendendo prospettare la valenza formativa di questo impegno di elaborazione è inevitabile che venga fuori la questione della tecnologia.
Per un verso constato che 
nella letteratura più nota e diffusa sulla complessità - scritti anche recenti di Mario Ceruti o  Edgar Morin non mancano certo sul mio tavolo o sulla mia nuvola di lavoro - il tema tecnologia trova una collocazione a dir poco marginale.
Per un altro verso prendo atto che, accanto e a quello delle guerre, la questione su cui più s'è discusso, e a tutti i livelli e gli ambiti di sapere, in questi tre anni, è l'Intelligenza Artificiale.
Debbo dunque trovare il modo di mettere assieme i seguenti pezzi: l'assenza del tema tecnologia nella teoria della complessità; la grossa presenza delle questioni poste dall'Intelligenza Artificiale dentro le comuni pratiche di esperienza e conoscenza, sia quelle di tipo formale sia quelle informali; la necessità di tradurre tutto questo in indicazioni pedagogiche capaci di valorizzare (si sa, è questo il mio vezzo) la presenza, all'interno dell'azione educativa, di soggetti e più in generale di 'generazioni' caratterizzate da sensibilità, idee, modi di pensare e agire diversi; la presa in considerazione delle aule universitarie (quelle fisiche e quelle online) come spazi dentro i quali le diverse generazioni di fatto si incontrano; la possibilità di considerare questo incontro come qualcosa di arricchente sul versante epistemologico e non solo psicologico, dunque come ambito entro il quale, secondo criteri laboratoriali, far interagire psicogenesi e sociogenesi dei concetti e delle teorie. 
Ho un in testa tante idee, e non riesco sempre a dar loro  figurazioni riconoscibili e accettabili ordinamenti argomentativi.
Chiedo dunque  al mio maggiordomo (fuor di metafora: piattaforma IAgen ad accesso libero) di aiutarmi e di indossare, a seconda delle mie richieste, una giacca o l'altra (fuor di metafora: ChatGPT per operazioni più complesse, Gemini-Google per le altre).

Qui di seguito i nostri conversari.

IO
Un'interpretazione dei temi e delle questioni poste dall'antropocene che intenda essere più matura e storicamente fondata di quelle consuete dovrebbe aiutare a mettere meglio in evidenza il portato concettuale dei contributi che la tecnologia, intesa come istanza epistemologica o addirittura ontologica, può offrire all'intera problematica  e quindi a colmare quella che apparentemente funge come una lacuna interna alla filosofia della complessità di Morin e alla sua versione danzante di Mario Ceruti. Questa lacuna è intenzionale o è l'effetto di un 'rimosso'?

CHATGPT
Bella domanda — densa e ben posta. Provo a rispondere in modo netto ma sfumato insieme: la «lacuna» che rilevi nella filosofia della complessità (Morin) e nella versione più “danzante” di Mario Ceruti può essere letta sia come scelta teorica (intenzionale) sia come effetto di un rimosso. Nella realtà plausibilmente è entrambe le cose, ma con profili e cause diverse. Ti do prima la diagnosi bifronte e poi alcune conseguenze metodologiche e storiche.

1) Lettura 1 — una lacuna intenzionale

Ci sono ragioni filosofiche e strategiche per cui una teoria della complessità «umanistica» può limitare l’inclusione esplicita della tecnologia come istanza ontologica:

  • Protezione del campo teorico. Morin (e chi adotta una sensibilità complessa dal versante umanistico) vuole recuperare lo spessore della soggettività, della responsabilità e della dimensione etica-politica in un panorama dominato da riduzionismi tecnico-scientifici. Un’attenuazione dell’attenzione alla tecnologia evita che la sua analisi venga risucchiata in discorsi tecnicisti o deterministi che neutralizzerebbero la critica sociale.

  • Priorità epistemologiche. La filosofia della complessità mette in primo piano relazioni, emergenze, circolarità spiegative e apprendimento collettivo: questo orizzonte privilegia categorie relazionali (sistemi, retroazioni, ecologia di senso) piuttosto che una “metafisica degli oggetti tecnici”. Inserire subito un’ontologia tecnica rischia di imporre un lessico diverso (infrastrutture, agentività non-umana, mediazione tecnica) che sposterebbe l’attenzione.

  • Tattica normativa. Per ragioni politiche e pedagogiche può essere utile enfatizzare capacità di auto-organizzazione, resilienza e responsabilità collettiva piuttosto che dare centralità alla macchina, per non legittimare discorsi di delega tecnologica.

Quindi: la lacuna può essere in parte «voluta» per mantenere il discorso aperto, pluralista e centrato su soggettività, relazioni umane e valori.

2) Lettura 2 — una lacuna come rimosso (inconscio disciplinare)

D’altra parte, l’assenza forte di un’analisi ontologica/epistemologica della tecnologia può essere spiegata come un rimosso strutturale:

  • Eredità umanistica. Molti filosofi della complessità provengono da una tradizione umanistica che storicamente ha tenuto separati due registri: il mondo «delle idee/relazioni» e il mondo «delle macchine» intese come mero strumento. Ciò produce un’area cieca quando le macchine diventano agenti socio-ecologici (es. reti, algoritmi che modellano i comportamenti, infrastrutture planetarie).

  • Divisione disciplinare. Gli studi sulla tecnologia (STS, ontologia tecnica, philosophy of technology) e la complessità sono spesso in istituzioni e reti diverse: scienziati sociali tecnologici, ingegneri e filosofi rimangono separati. Il rimosso è dunque anche istituzionale.

  • Rimozione difensiva. Ammettere la centralità ontologica della tecnica significa affrontare responsabilità forti (chi progetta, chi governa, chi beneficia) — fare questo porta a conflitti e a critiche politiche scomode. È più comodo, psicologicamente e politicamente, mantenere la tecnologia sullo sfondo.

Da questo punto di vista la lacuna è meno strategica e più il segno di una resistenza o di un ritardo: il mondo empirico dell’Antropocene mostra che la tecnica non è solo strumento, ma agente che ha trasformato geofisica, economie, ritmi temporali — e la filosofia della complessità deve farsene carico.

3) Una sintesi provvisoria (e prescrittiva)

È utile considerare la questione come dialettica: Morin & Ceruti hanno portato l’attenzione su ciò che spesso era trascurato (complessità, dialogicità, apprendimento), ma ora l’Antropocene chiede che quella sensibilità si allarghi e si ibridi con una ontologia/epistemologia della tecnica. Non è solo un’aggiunta analitica: è una trasformazione concettuale. Questo implica:

  • Spostare la tecnica da «contesto» a «attore»: studiarla come media-agente che co-costruisce soggetti, ecosistemi e storie.

  • Integrare approcci: STS, political ecology, media theory, filosofia della tecnologia, e studi sui materiali devono entrare nel laboratorio concettuale della complessità.

  • Storicitizzare la tecnologia: leggere le tecnologie come processi storici (es. agricoltura chimica, combustibili fossili, infrastrutture digitali) che ridefiniscono tempi, spazi e relazioni causali su scala planetaria.

  • Riconoscere l’agentività distribuita: non solo soggetti umani ma reti sociotecniche e materiali dotate di capacità trasformative e di retroazione sul sistema.

4) Qualche spunto operativo per colmare la lacuna

Se il centro del tuo saggio è argomentare che la lacuna vada colmata, puoi proporre un percorso articolato:

  1. Mappa storica di casi emblematici (atomica, petrolio/industria chimica, plastica, agroindustria, reti digitali) che mostrino come la tecnologia abbia trasformato condizioni geofisiche e norme sociali.

  2. Dialogo concettuale tra complessità (emergenza, ricorsività, retroazione), STS (mediazione, co-costruzione), e ontologia tecnica (artefatto come portatore di pratiche e intenzioni).

  3. Metodo: micro-storie infrastrutturali + macro-modelli di retroazione sociale-ecologica; attenzione alle scale temporali (inerzie, lock-in) e ai regimi di responsabilità.

  4. Politica e etica: passare da un’etica della responsabilità individuale a una pratica politica che regoli progettazione, diffusione e governance delle tecnologie su scala planetaria.

Conclusione (breve)

La lacuna è in parte intenzionale — una scelta prudente o strategica per mettere al centro questioni relazionali ed etiche — e in parte un rimosso disciplinare e psicologico, cioè un’area cieca che oggi l’Antropocene rende improcrastinabile. La sfida teorica è far dialogare la filosofia della complessità con un’ontologia e un’epistemologia della tecnica che riconosca la tecnologia come co-autrice delle storie planetarie.

Se vuoi, ti scrivo una possibile mappa di capitoli per un saggio che faccia esattamente questo (bibliografia orientativa, casi studio, scaletta argomentativa). Ti va?

IO
Tra le diverse piste di analisi che proponi sceglierei la 'mappa storica' e al suo interno, come tema specifico, quello delle reti digitali. Per essere in linea con quanto stiamo elaborando, cioè una teoria matura dell'antropocene che si serva di una filosofia non solo 'umanistica' della complessità, su quali concetti (propri dell'area tecnologica) si potrebbe far leva?

CHATGPT
Ottima scelta: la pista delle reti digitali è forse la più paradigmatica per mostrare come tecnologia e Antropocene siano intrecciati, non come sfondo ma come vera forza storica.

Se l’obiettivo è fondare una teoria matura dell’Antropocene che non si limiti alla dimensione umanistica della complessità, allora bisogna innestare sulla trama moriniana/cerutiana dei concetti tecnici che già hanno una valenza epistemologica o addirittura ontologica. Te ne propongo una rosa, con qualche nota su come potrebbero essere utilizzati:

1. Infrastruttura

  • Non solo supporto tecnico, ma condizione di possibilità di pratiche, economie, saperi.

  • Le reti digitali come infrastruttura planetaria hanno un carattere “ambientale”: invisibili e pervasivi come l’aria o l’acqua.

  • Collegamento con la complessità: le infrastrutture generano dipendenze ricorsive, path dependency, lock-in storici.

2. Rete / Network

  • Struttura nodale e distribuita, che porta con sé concetti di topologia (nodo, hub, periferia) e dinamiche emergenti (scale-free, piccoli mondi).

  • Non è solo una metafora, ma un modello operativo che plasma relazioni sociali, economiche e cognitive.

  • Qui la complessità trova terreno fertile: auto-organizzazione, feedback, non linearità.

3. Codice

  • Linguaggio operativo che media tra logica e mondo.

  • In quanto “grammatica performativa”, il codice si colloca a metà tra epistemologia e ontologia: non descrive soltanto, ma istituisce realtà.

  • Implica potere e normatività: chi scrive codice scrive regole di mondo.

4. Algoritmo

  • Formalizzazione del processo, reso eseguibile dalla macchina.

  • Ha valore ontologico perché non solo calcola, ma seleziona, filtra, ordina la realtà percepita.

  • Nella prospettiva dell’Antropocene, l’algoritmo è un agente ecologico: modula consumi, traffici, flussi energetici.

5. Protocollo

  • Regola condivisa che consente l’interoperabilità (TCP/IP, HTTP…).

  • Ontologia della cooperazione forzata: senza protocollo non c’è rete.

  • Filosoficamente, il protocollo è un apparato normativo invisibile che definisce le condizioni del possibile — un concetto ponte con la filosofia politica.

6. Interfaccia

  • Zona di contatto uomo-macchina, ma anche macchina-macchina.

  • Non solo “schermo” ma dispositivo cognitivo: ciò che rende intelligibile un mondo complesso.

  • In chiave antropocenica, l’interfaccia è lo spazio in cui si decide se la complessità viene tradotta in semplificazione o in apertura di senso.

7. Cloud / Data Center

  • Figura paradigmatica del “digitale che diventa geofisico”: enormi consumi energetici, uso di acqua per raffreddamento, dislocazione planetaria.

  • Il cloud come nuova atmosfera tecnica: invisibile ma materiale.

  • Qui si mostra come la rete digitale sia già un attore ecologico dell’Antropocene.

8. Feedback e Retroazione Automatica

  • Concetto ereditato dalla cibernetica, ma reso oggi pervasivo dai sistemi digitali (machine learning, recommendation).

  • La retroazione digitale modella comportamenti individuali e collettivi, creando cicli di rinforzo che hanno effetti sociali e ambientali.

  • Incrocio diretto con Morin: la complessità come dialogo tra ordine/disordine/organizzazione trova nella retroazione digitale un campo empirico nuovo.

9. Scalabilità

  • Proprietà tecnica (e politica) delle reti: possibilità di espandersi indefinitamente mantenendo funzionalità.

  • Ma ogni scala introduce effetti emergenti inattesi: dalla chat locale alla disinformazione planetaria.

  • In chiave Antropocene: la scalabilità digitale mostra come soluzioni tecniche locali diventino problemi globali.

10. Automazione / Autonomia Tecnica

  • Il passaggio da sistemi “assistivi” a sistemi “decisionali”.

  • In termini ontologici: la macchina digitale non è più strumento, ma soggetto parziale di decisione.

  • Per la complessità: la sfida è integrare questa nuova agentività non-umana nel quadro delle interdipendenze globali.


📌 In sintesi: una teoria matura dell’Antropocene che si concentri sulle reti digitali dovrebbe far leva su concetti come infrastruttura, rete, codice, algoritmo, protocollo, interfaccia, cloud, feedback, scalabilità, automazione.
Sono concetti tecnici ma anche concetti filosofici, perché implicano un’idea di mondo, di relazione e di realtà.


Vuoi che ti abbozzi una “mappa storica delle reti digitali nell’Antropocene” costruita proprio intorno a questi concetti (come capitoli o nodi), in modo che tu abbia già una struttura narrativa pronta da sviluppare?


IO
Apprezzo la tua sintesi, ma da docente universitario mi pongo il problema di far capire ai miei studenti che modo di pensare devono adottare per arrivare a cogliere e problematizzare i temi di cui stiamo dicendo nel modo che stiamo dicendo. E soprattutto come dovrebbe o potrebbe cambiare la cornice istituzionale entro cui svolgono il loro impegno di studio al fine di renderli agenti attivi? Questo, ti chiedo, in ragione della sensibilità diversa di cui essi sono tramite, un dato di fatto che non può essere ignorato, ma al contrario andrebbe valorizzato all'interno di una elaborazione che, nell'età dell'IA, non può non essere condivisa

CHATGPT

Capisco bene il punto: non si tratta solo di padroneggiare concetti o di mappare storie tecnologiche, ma di creare un modo di pensare e un quadro istituzionale che consenta agli studenti di riconoscersi come soggetti attivi nella riflessione sull’Antropocene e sulla complessità tecnologica.
Provo a rispondere distinguendo due livelli intrecciati: il piano del pensiero (cosa significa “pensare in questo modo”) e il piano istituzionale (come organizzare lo studio e la formazione).

1. Un nuovo modo di pensare (atteggiamenti cognitivi ed etici)

Per aiutare gli studenti a cogliere i nodi che dicevamo, non basta trasmettere contenuti; serve allenare sensibilità intellettuali. Alcuni tratti chiave:

  • Pensare in termini sistemici e relazionali. Non “X causa Y”, ma reti di condizioni, retroazioni, conseguenze inattese.
    → Qui le reti digitali sono palestra immediata: ciò che appare “locale” è sempre parte di una dinamica globale.

  • Coltivare l’attenzione alle mediazioni. Chiedersi sempre: attraverso quali codici, protocolli, interfacce questa realtà viene resa possibile o pensabile?
    → Non prendere mai la tecnologia come neutra o trasparente.

  • Accettare l’ambivalenza. Non “la tecnologia è buona/cattiva”, ma “produce insieme possibilità e vincoli, emancipazioni e dipendenze”.
    → È la logica dialogica di Morin, che qui trova terreno concreto.

  • Saper storicizzare. Vedere che ogni artefatto tecnico è figlio di contesti economici, politici, ecologici — e che a sua volta li trasforma.
    → La rete digitale non è “nata così”: è storia di scelte, protocolli, interessi.

  • Pensare la propria agentività. Capire che come utenti, programmatori, cittadini, ricercatori si partecipa a quelle stesse dinamiche.
    → Non spettatori, ma co-autori (anche se in misura piccola).

2. Una cornice istituzionale diversa (forme di studio e di impegno)

Perché questi atteggiamenti diventino pratiche, la cornice universitaria non può restare quella trasmissiva tradizionale. Alcuni movimenti possibili:

  • Didattica orientata a progetti complessi. Invece di corsi centrati solo su testi, far lavorare gli studenti su casi reali:
    es. mappare l’impatto ecologico di un data center locale, analizzare il ciclo di vita di un algoritmo, progettare una visualizzazione critica di flussi digitali.

  • Interdisciplinarità strutturata. Non corsi isolati, ma laboratori che uniscono filosofia, informatica, scienze ambientali, sociologia.
    → Gli studenti devono imparare che la complessità non si attraversa da soli.

  • Riconoscere e valorizzare la loro sensibilità digitale. Molti studenti vivono nativamente le logiche delle reti, degli algoritmi, delle piattaforme.
    → L’università dovrebbe partire da lì, non ignorare questa esperienza: usarla come punto di accesso critico.

  • Pratiche di co-ricerca. Invece di esercitazioni passive, attivare “indagini comuni” in cui studenti e docenti si mettono insieme a esplorare un problema.
    → Questo li forma come agenti attivi, non come destinatari.

  • Spazi di discussione e produzione condivisa. Per esempio, wiki di corso, piattaforme collaborative, workshop aperti.
    → La conoscenza si costruisce come in una rete, non come in una piramide.

3. Il ruolo dell’IA e dell’Antropocene

Nell’età dell’IA (che gli studenti conoscono e usano più di quanto spesso ammettano):

  • Non ignorarla, ma tematizzarla. L’IA va usata come oggetto di analisi (cosa implica ontologicamente, ecologicamente) e come strumento didattico (per scrivere, per esplorare dati).

  • Condivisione come principio. La riflessione non può essere riservata al docente o agli esperti: è costruzione comune, perché l’IA e le reti digitali hanno senso solo dentro pratiche collettive.

  • Responsabilità diffusa. Ogni studente deve capire che le scelte tecnologiche (uso, progettazione, rifiuto) sono anche scelte politiche ed ecologiche.

📌 In sintesi: per rendere gli studenti agenti attivi nell’elaborazione di una teoria dell’Antropocene centrata sulla tecnologia, occorre insegnare loro a pensare sistemicamente, storicizzare, valorizzare le mediazioni e la loro stessa esperienza digitale, e contemporaneamente riplasmare la cornice universitaria in senso laboratoriale, interdisciplinare, collaborativo e co-ricercativo.

Vuoi che ti prepari una proposta operativa di laboratorio universitario (con attività, obiettivi, strumenti, ruoli) che incarni proprio questo approccio?

IO
Ho qualche perplessità su quanto proponi come sintesi. Poiché sono un tipo poco 'paludato', cui piace giocare e mettersi in gioco ti chiedo di usare Monday per farmi vedere pregi e difetti della proposta

CHATGPT

Perfetto — allora prendiamo la tua richiesta in chiave “ludica” e ti preparo una sorta di Monday board testuale: due colonne, Pro e Contro, che mettono in evidenza i punti forti e le criticità della sintesi che ti ho proposto.

🗂️ Monday Board — Proposta didattica su Antropocene, complessità e tecnologia

✅ Pregi (Pro)

  • Allineamento con l’epoca → mette IA e reti digitali al centro, senza trattarle come accessorio.

  • Attiva gli studenti → li porta da spettatori a co-ricercatori, responsabilizzandoli.

  • Interdisciplinare → rompe i compartimenti stagni, crea un linguaggio comune.

  • Sfrutta la sensibilità nativa → parte dall’esperienza digitale degli studenti, non la ignora.

  • Etica + pratica → non solo teoria, ma anche progetti concreti (es. data center, algoritmi).

  • Coerenza con la filosofia della complessità → approccio dialogico, sistemico, ricorsivo.

  • Creatività → favorisce spazi di gioco intellettuale (wiki, workshop, mappe).

⚠️ Difetti (Contro)

  • Rischio di dispersione → troppe piste (progetti, interdisciplinarità, etica, IA) possono disorientare.

  • Richiede risorse → servono laboratori, competenze tecniche, tempo extra, non sempre disponibili.

  • Possibile resistenza istituzionale → università ancora legate a corsi frontali e valutazioni tradizionali.

  • Differenze tra studenti → non tutti hanno la stessa familiarità digitale; alcuni rischiano di sentirsi esclusi.

  • Difficile valutazione → come misurare la co-ricerca? Con quali criteri oggettivi?

  • Sovraccarico per il docente → diventa facilitatore, tutor, tecnico, coordinatore, con carico extra.

  • Ambivalenza del “gioco” → può essere liberante ma rischia di essere percepito come poco serio se non ben calibrato.

👉 Insomma: la proposta ha il pregio di rispecchiare il mondo che viviamo e valorizzare la complessità, ma il difetto di essere più esigente sul piano istituzionale e organizzativo.
Qui sta il nodo: serve capire se giocare la sfida dentro le strutture attuali (con compromessi) o se usarla come leva per forzare un cambiamento di cornice.

Vuoi che trasformi questa board in una roadmap visiva (tipo timeline di Monday) su come avviare gradualmente un laboratorio del genere, così da ridurre il rischio di dispersione e resistenza?

IO
Detto e fatto tutto questo, resta aperto un problema filosofico, che è quello del perché, all'interno della teoria della complessità di matrice Morin o Ceruti, c'è così poco spazio (materiale e concettuale) per la tecnologia.

CHATGPT
Hai centrato il nodo vero: al di là degli usi pedagogici o didattici, il problema è filosofico — perché dentro la teoria della complessità di Morin (e nella sua versione “danzante” di Ceruti) c’è così poco spazio per la tecnologia, proprio laddove invece sembrerebbe inevitabile.

Provo a rispondere con tre chiavi di lettura, complementari:

1. Origine culturale e intellettuale

Morin e Ceruti nascono dentro una tradizione umanistica e critica del Novecento, segnata da:

  • la diffidenza verso i riduzionismi scientisti e tecnocratici;

  • l’ansia di salvaguardare la centralità dell’umano, della cultura, della responsabilità politica;

  • il sospetto che la “macchina” fosse sempre ancella di logiche di dominio (capitalistiche, militari, burocratiche).

👉 Da qui, la tecnologia viene “messa tra parentesi”: non negata, ma non tematizzata come istanza autonoma. È un prodotto culturale tra altri, non un attore ontologico.

2. Scelta metodologica intenzionale

La complessità moriniana privilegia categorie relazionali ed epistemiche: dialogica, ricorsività, emergenza, auto-eco-organizzazione.

  • Inserire un discorso forte sulla tecnologia avrebbe significato contaminare il lessico con categorie ingegneristiche e cibernetiche, rischiando di “appiattire” la prospettiva.

  • La priorità di Morin era mostrare la pluralità dei saperi e ricucire scienze naturali, sociali e umane, non fondare un’ontologia della tecnica.

👉 In questo senso la lacuna è intenzionale: la tecnologia viene vista come un esempio tra tanti della complessità, non come suo motore specifico.

3. Rimosso storico e culturale

Al tempo stesso, questa assenza funziona anche come rimosso:

  • la teoria della complessità nasce negli anni ’70-’90, epoca in cui le tecnologie digitali non erano ancora “atmosferiche” come oggi. C’erano informatica, reti nascenti, ma non la pervasività planetaria del cloud o dell’IA.

  • L’Antropocene tecnologico non era ancora visibile in tutta la sua portata: Morin guardava soprattutto all’ecologia, alla biosfera, ai sistemi sociali.

  • Perciò la tecnologia è stata collocata implicitamente “sullo sfondo”, come ambiente strumentale, e non tematizzata in modo autonomo.

👉 Oggi questo rimosso diventa evidente: non possiamo più parlare di complessità o di Antropocene senza riconoscere la tecnologia come attore geofisico e cognitivo.

4. Una sintesi

La mancanza di spazio per la tecnologia nella filosofia della complessità non è un semplice difetto, ma l’effetto congiunto di:

  • una scelta teorica (proteggere il discorso da riduzionismi tecnicisti);

  • un orizzonte storico (la tecnologia non ancora “planetaria”);

  • un rimosso culturale (la persistenza della frattura umanesimo/tecnica).

Oggi, però, questa lacuna diventa insostenibile: l’Antropocene digitale ci obbliga a un allargamento della complessità, in cui la tecnologia non sia più un oggetto secondario ma un principio di organizzazione e di perturbazione dei sistemi stessi.

Vuoi che ti prepari una formulazione breve e “da saggio” di questo argomento, che tu possa inserire direttamente nel tuo testo come paragrafo filosofico?

IO
Per non dire poi della grossa insidia che pone un'assunzione ingenua della teoria dell'antropocene da parte di studenti non adeguatamente preparati sul piano concettuale, cioè trovarsi coinvolti all'interno di una rappresentazione apocalittica della tecnologia

CHATGPT 

Esatto: questo è un punto delicatissimo, perché l’Antropocene porta con sé un’aura quasi “messianica” o “apocalittica” — e senza una preparazione concettuale solida il rischio per gli studenti è di cadere in una narrazione di catastrofe che congela la capacità critica e li rende passivi.

Ti evidenzio tre rischi principali e tre strategie di antidoto, così puoi tematizzarli apertamente con i tuoi studenti:

🚨 Rischi dell’assunzione ingenua

  1. Tecnofobia apocalittica
    – La tecnologia vista solo come agente di distruzione planetaria: algoritmi = manipolazione, IA = fine del lavoro, cloud = disastro ambientale.
    – Conseguenza: paura, cinismo, impotenza.

  2. Determinismo tecnologico
    – L’idea che la tecnologia abbia un potere lineare e irresistibile.
    – Conseguenza: “non c’è niente da fare, così va il mondo”, quindi deresponsabilizzazione.

  3. Estetica della catastrofe
    – Fascinazione per il collasso come spettacolo (film, serie, discorsi mediatici).
    – Conseguenza: l’Antropocene diventa uno scenario da guardare, non un problema da affrontare.

🛠️ Strategie di antidoto

  1. Storicizzare la tecnologia
    – Mostrare che ogni infrastruttura digitale ha una genealogia: è fatta di scelte, interessi, protocolli, e quindi poteva essere diversa.
    – Questo riporta l’attenzione alla contingenza e alla responsabilità.

  2. Allenare al pensiero complesso
    – Ribadire che ogni tecnologia è ambivalente: porta rischi e opportunità, non in blocco ma a seconda di usi, contesti, regole.
    – Qui si aggancia la logica dialogica di Morin: non catastrofe vs. salvezza, ma tensione continua.

  3. Pratiche di appropriazione critica
    – Far sì che gli studenti non solo parlino di tecnologia, ma la usino in modo riflessivo: esplorare un algoritmo, analizzare i consumi di un data center, provare strumenti di IA criticandoli.
    – Così si passa da spettatori a agenti capaci di intervento.

📌 In sintesi: per evitare l’insidia della rappresentazione apocalittica, bisogna spostare lo sguardo da un “mito della tecnologia” (buona o cattiva che sia) a una filosofia della contingenza e della responsabilità. L’Antropocene non è destino, ma campo di scelte e conflitti in cui la tecnologia è parte attiva, non fato inesorabile.


IO
Ti invito a darmi una mano e aiutarmi a capire in che vicolo cieco mi sono buttato. Sono un professore universitario di pedagogia e mi sono messo in testa di proporre un programma 'innovativo' ai miei studenti, un qualcosa che possa consentire loro di aprire la testa. Ho interrogato in proposito ChatGPT che mi ha proposto questa sintesi del progetto. Te la riproduco e ti invito a 'farci le bucce' come tu sai fare. Ecco il testo: per rendere gli studenti agenti attivi nell’elaborazione di una teoria dell’Antropocene centrata sulla tecnologia, occorre insegnare loro a pensare sistemicamente, storicizzare, valorizzare le mediazioni e la loro stessa esperienza digitale, e contemporaneamente riplasmare la cornice universitaria in senso laboratoriale, interdisciplinare, collaborativo e co-ricercattivo 

GEMINI
Grazie per aver condiviso questo interessante progetto. Capisco perfettamente il tuo desiderio di offrire agli studenti un'esperienza che li spinga a pensare in modo nuovo e profondo. L'idea di esplorare la pedagogia attraverso il concetto di Antropocene e il ruolo della tecnologia è estremamente attuale e stimolante.

Ho analizzato la proposta di ChatGPT e ho alcune riflessioni da condividere, focalizzandomi su come renderla ancora più concreta, efficace e "a prova di studente".

Analisi della proposta e possibili integrazioni

La proposta di ChatGPT presenta una visione molto chiara e ambiziosa. Il suo punto di forza risiede nel delineare gli obiettivi e le metodologie chiave. Tuttavia, per trasformare questa visione in un programma didattico praticabile, mi concentrerei su come rendere i concetti più tangibili e come misurare i progressi.

Ecco i miei suggerimenti, organizzati per i punti sollevati dal testo:

1. Dalla teoria alla pratica: "rendere gli studenti agenti attivi"

  • Punto di forza: L'idea di "agenti attivi" è il cuore della pedagogia contemporanea.

  • Aree di miglioramento: Come si traducono in pratica l'elaborazione di una teoria dell'Antropocene? Spesso, gli studenti faticano a cogliere l'astrazione di un concetto così ampio.

  • Suggerimento: Invece di chiedere loro di elaborare una "teoria", si potrebbe proporre la creazione di un "Manifesto pedagogico per l'Antropocene digitale". Questo li spinge a sintetizzare le loro riflessioni in un documento chiaro, coeso e orientato all'azione. Il manifesto potrebbe includere:

    • Principi chiave: Quali sono i pilastri di una pedagogia che prepara al mondo dell'Antropocene?

    • Raccomandazioni: Come dovrebbero cambiare le scuole, le università, e la società per affrontare queste sfide?

    • Prototipi: Possono proporre un prototipo di app, un gioco educativo, o un curriculum scolastico che incarni i loro principi.

2. Rendere concreti i metodi: "pensare sistemicamente e storicizzare"

  • Punto di forza: Il pensiero sistemico e la storicizzazione sono strumenti analitici potenti.

  • Aree di miglioramento: Questi concetti rischiano di rimanere astratti senza un'applicazione pratica.

  • Suggerimento: Si potrebbe introdurre l'uso di mappe mentali interattive o schemi di analisi di sistema per visualizzare le interconnessioni tra tecnologia, ambiente, società e cultura. Ad esempio, una mappa che colleghi lo sviluppo di un'intelligenza artificiale (tecnologia) all'estrazione di minerali rari (ambiente), alle dinamiche lavorative (società) e alle narrazioni culturali (cultura). Per la storicizzazione, si potrebbe chiedere agli studenti di creare una "linea del tempo delle utopie e distopie tecnologiche", analizzando film, libri e innovazioni del passato per capire come le nostre percezioni sono cambiate.

3. Valorizzare l'esperienza: "valorizzare la loro esperienza digitale"

  • Punto di forza: Connettere il programma alla vita quotidiana degli studenti è fondamentale per il loro coinvolgimento.

  • Aree di miglioramento: La loro esperienza digitale è vasta e spesso caotica. Come la si analizza in modo critico?

  • Suggerimento: Si potrebbe proporre un progetto di "auto-etnografia digitale". Gli studenti dovrebbero tenere un diario per una o due settimane, monitorando le loro interazioni digitali (dall'uso dei social media alle ricerche online) e riflettendo su come queste piattaforme li influenzano. Dovrebbero poi analizzare i dati raccolti, identificando pattern, bias e opportunità. Questo trasforma il loro consumo passivo in una pratica di ricerca attiva.

4. La cornice universitaria: "laboratoriale, interdisciplinare, collaborativo"

  • Punto di forza: Ridefinire l'università in un senso più aperto è una visione rivoluzionaria.

  • Aree di miglioramento: Un conto è la teoria, un altro la sua implementazione pratica.

  • Suggerimento: Trasformare l'aula in un vero "laboratorio di co-creazione". Invece di lezioni frontali, si potrebbe dedicare il tempo a workshop e discussioni guidate. Si potrebbero invitare esperti di diversi campi (scienziati, artisti, programmatori) a partecipare a sessioni di "co-progettazione" con gli studenti. Il prodotto finale non sarebbe un saggio, ma un progetto concreto e tangibile, come il manifesto o il prototipo menzionato prima, sviluppato in piccoli gruppi.

Spero che queste riflessioni ti siano utili per arricchire e mettere a punto il tuo ambizioso progetto. La chiave, a mio parere, è trasformare ogni concetto astratto in un'attività pratica che gli studenti possano vedere, toccare e di cui possano discutere.



IO
Sto ragionando sulle caratteristiche 'mediologiche' di tre diverse generazioni che convivono oggi. I più anziani sono esponenti della società delle lettere, dove la cultura era fortemente dipendente dalla stampa, quindi da una rappresentazione fissa e organizzata dal sapere. La generazione intermedia è quella segnata dalla cultura audiovisuale, quindi dalla logica di un flusso che vive del tempo più che dello spazio. Infine la generazioni attuale è quella su cui il digitale e la cultura dei dati ha fornito e sta fornendo un forte imprinting. Come definire con immagini evidenti le tre generazioni? Sono indeciso sulla terza. La prima è 'generata' dalla repubblica delle lettere. La seconda dalla società dell'immagina. La terza? Qualcosa come umanità o antropologia dei dati. Mi aiuti?


CHATGPT
Bellissima impostazione, molto “mediologica” in senso stretto: tre generazioni, tre forme simboliche che traducono non solo il rapporto con i media, ma anche con la conoscenza e con il mondo.

Proviamo a renderle con immagini chiare e icastiche:

  1. La generazione della stampa

    • Immagine: la biblioteca, scaffali ordinati, libri come depositi di memoria stabile.

    • Parola chiave: Repubblica delle lettere.

    • Logica: spazio organizzato, sapere come architettura.

  2. La generazione dell’audiovisivo

    • Immagine: lo schermo televisivo o cinematografico, il flusso luminoso che scorre.

    • Parola chiave: Società dell’immagine.

    • Logica: tempo vissuto, esperienza come racconto continuo.

  3. La generazione del digitale
    Qui sta l’incertezza, perché l’imprinting non è solo “immagine”, ma dati, reti, interazioni. Alcune possibili metafore:

    • La nuvola (cloud), come simbolo di memoria distribuita e flusso incessante di dati.

    • La rete (web), come tessuto connettivo in cui ogni nodo è parziale ma interconnesso.

    • L’algoritmo, meno visivo ma potentissimo, come logica che governa ciò che vediamo e sappiamo.

    Possibili etichette:

    • Umanità dei dati (come hai già intuito).

    • Antropologia della rete.

    • Civiltà dell’algoritmo.

    • Società connessa (o “interconnessa”).

Se vuoi un parallelismo coerente con “repubblica” e “società”:

  • 1ª: Repubblica delle lettere

  • 2ª: Società dell’immagine

  • 3ª: Ecumene dei dati (evoca l’idea di uno spazio planetario condiviso, non più un territorio ma un ambiente digitale globale).

👉 Ti propongo due strade:

  • Se preferisci una parola che evochi l’elemento materiale e visibile → nuvola dei dati.

  • Se vuoi un concetto più culturale e antropologico → ecumene digitale.

Vuoi che provi a condensare queste tre immagini in una formula unica e simmetrica (tipo “Repubblica – Società – Ecumene”) che le tenga insieme in una sola cornice?

IO
Sì, ma tenendo conto soprattutto della questione personale della 'sensibilità' più che della questione istituzionale della 'cultura'

CHATGPT

Perfetto, allora spostiamo il fuoco: non tanto istituzioni e forme culturali collettive (repubblica, società…), quanto il tipo di sensibilità personale che ciascuna generazione sviluppa grazie al medium dominante.

Ecco una proposta:

  1. Generazione della stampa

    • Sensibilità tipografica: attenzione alla permanenza, al testo ordinato, alla linearità del discorso.

    • Immagine: il libro aperto (la pagina come mondo, la lettura silenziosa come interiorità).

  2. Generazione dell’audiovisivo

    • Sensibilità cinematica: attenzione al flusso, all’evento che passa, alla percezione immersiva del tempo.

    • Immagine: lo schermo luminoso (televisione/cinema, il racconto che scorre davanti agli occhi).

  3. Generazione del digitale

    • Qui la sensibilità è meno “centrata” e più reticolare, interattiva, dispersa nei dati.

    • Possibili nomi:

      • Sensibilità reticolare (orientata al legame e alla connessione).

      • Sensibilità algoritmica (abituata a delegare selezione e orientamento a processi invisibili).

      • Sensibilità dativa (non solo “dei dati”, ma del “darsi” continuo di tracce, notifiche, interazioni).

    • Immagine: la nuvola di dati o la rete di nodi interconnessi.

👉 In sintesi:

  • Sensibilità tipografica – pagina/libro

  • Sensibilità cinematica – flusso/schermo

  • Sensibilità reticolare (o algoritmica) – rete/nuvola

Vuoi che provi a visualizzarle in una tabella comparativa, così che la scansione delle tre sensibilità sia subito evidente?

IO
No, grazie. Penso possa bastare. Per ora



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