Un 'mio' Visalberghi
Impossibilitato, perché in viaggio, a prendere parte alla giornata in memoria di Aldo Visalberghi che si terrà a RomaTre il prossimo 24 giugno, ho ipotizzato di inviare, per una lettura pubblica, qualche riga di omaggio riflessivo.
Ma, subito, ho contattato l'imbarazzo che abitualmente provo in situazioni di questo tipo, esperite direttamente o anche indirettamente. Come parlare di chi non c'è più e con il quale si hanno avuto rapporti, e come farlo senza mettersi al centro? C'è mai un ricordo che, sfidando ogni ipocrisia, possa presentarsi come oggettivo? È mai possibile una ricostruzione del passato che non coinvolga il presente? Come evitare che questi interventi altro non siano che occasioni per parlare di sé e non dell'altro, di un presente senza passato o di un passato senza presente?
Mi si obietterà: perché la fai così difficile? Si tratta solo di stendere due righe per un evento accademico.
Beh, non è così, almeno per me.
Il travaglio cui alludo è connesso alla messa in comune, in interventi simili, di questioni di scienza e di coscienza, e dunque al coinvolgimento, che può essere più o meno consapevole, di aspetti personali di sensibilità e affettività: la pelle assieme alla carne, l'animo assieme all'anima. Facendone una questione di scienza si rischia di non essere mai tranquilli, con l'altrui e la propria coscienza. Tanto vale, io penso, accettare questa condizione di inevitabile porosità e perfino ambiguità della memoria, personale e collettiva, e comportarsi di conseguenza.
(Se avete bisogno di riferimenti seri per questo tipo di problematica, che ha a che fare con il rapporto tra assenza e presenza, vita e morte, potrei rimandarvi al Jacques Derrida di Ogni volta unica, la fine del mondo, uscito per Jaca Book nel 2005: ma lascio la cosa tra parentesi)
Si tratterebbe allora, nel mio caso, di provare a delineare i tratti di Visalberghi per come ho vissuto l'esperienza con lui e quanti erano con lui e in varie forme attorno a lui, allora. Ma anche per come la rivivo ora, quell'esperienza, nel ricordo attualizzato e attualizzante del presente. Ora che tante cose sono cambiate, nel grande e piccolo mondo, rispetto quei tempi e quei contesti.
Mi propongo dunque di raccontare qui cosa mi è capitato dopo che, così riflettendo, sono approdato alla decisione di non nascondermi dietro i codici della memorialistica ufficiale ma, al contrario, di 'stanarmi' davanti e dentro ad essa, sì da provare a comporre o, al limite, soltanto pensare le fatidiche due righe in una condizione di provata sincerità, soprattutto con me stesso.
Lo faccio articolando la narrazione in due fasi.
Prima fase: la crasi
È avvenuto che, nel dormiveglia successivo alla produzione dei pensieri serotini di cui ho detto, mi si sono sovrapposte due figure.
Prima però di svelarvi l'identità dell'altra figura comparsa, rispetto a quella di Visalberghi, consentitemi di apportare qualche chiarimento a proposito dello stato di 'dormiveglia', anzi di farlo fare a chi su questo argomento non ha avuto remore al filosofare 'affettuosamente'.
Passando, a proposito di esperienza, dalla dimensione materiale a quella concettuale ritengo legittimo, almeno per quanto riguarda questa mia storia, accostare lo stato di dormiveglia a quanto Gaston Bachelard sostiene a proposito della rêverie, ossia quella condizione di riposo della mente e del corpo, di attraversamento del confine tra veglia e sonno, in cui ci si dispone al libero fantasticare, e dove appunto, le parole e i concetti si mescolano e si ibridano dando vita e riflettendo al loro interno il gioco delle immagini: uno spazio in cui l'immaginazione, potendo pescare nell'intimo, e quindi nell'autentico, è libera di produrre qualcosa di inaspettato, di nuovo.
Do prontamente la parola al filosofo-poeta: " ... la rêverie nel suo stadio più semplice, più puro, appartiene all'anima ... In linea di massima, ritengo che il sogno derivi dell'animus e la rêverie dall'anima ... La rêverie senza dramma, senza azione, senza storia ci garantisce il vero riposo ... facendoci scoprire la dolcezza di vivere. È l'anima a conferire alla rêverie la dolcezza, la lentezza e la pace che la caratterizzano. È nella rêverie che possiamo individuare gli elementi fondamentali di una filosofia del riposo". Se poi, aggiunge Bachelard, ci avventuriamo sul terreno dei rapporti fra immaginazione e memoria personale, non possiamo evitare di interrogarci sul valore generativo dei ricordi d'infanzia, delle immagini preziose che abbiamo amato e ben custodito. "Questi ricordi che vivono attraverso le immagini costituiscono, in alcune fasi della vita, specialmente in età avanzata, l'origine e la materia di una rêverie complessa: la memoria sogna, la rêverie ricorda ... Senza tregua l'immaginazione ravviva la memoria e la illustra" (i brani sono tratti da La poetica della rêverie, Dedalo, Bari 1972, p. 27).
È dunque giunto il momento di svelare l'identità dell'altra figura che mi si è sovrapposta, nella fantasticheria, a quella di Visalberghi: si tratta di Jacques Tati. Se poco sapete di questo cineasta, vi invito ad attingere informazioni e impressioni su Wikipedia e Youtube. Nel caso siate pigri, vi facilito il primo passo, riproducendo qui di seguito i due profili, per come compaiono con maggiore frequenza in rete (e dunque, anche nella mia personale memoria, ricorrente e rivedente). Più frequente l'immagine di Tati, meno quella di Visalberghi.
Indubbiamente c'è somiglianza tra le due figure. Certo, va rilevato il fatto che una è foto (sia pure di scena) e l'altra ritratto (molto probabilmente a memoria). Ed è proprio questa constatazione che mi spinge ad andare più giù, e indagare attorno alla natura profonda dell'accostamento: altrimenti di che rêverie potrei mai parlare? Può anche essere che l'autore del ritratto (Francesco Tonucci, in arte Frato, uno degli amici e conoscenti che popolavano il più ampio giro visalberghiano di cui ho detto all'inizio) nel tratteggiare il volto del professore si sia fatto condizionare dall'anima più che dall'animus, e dunque, volontariamente o no, si sia ispirato al volto del cineasta, decisamente più presente nell'immaginario dell'epoca. Come è per me, ora, rêverie e non puro accostamento materiale, potrebbe essere stata rêverie anche per lui, per Frato. E dunque la questione da affrontare va al di là della somiglianza fisica. In questo accostamento c'è dell'altro. Formulato in modo più esplicito l'interrogativo sarebbe questo, adesso: al di là della dimensione esteriore, cos'altro c'è, nel 'mio' (e forse anche nostro) Visalberghi che rende legittimo l'accostamento 'infantile', cioè ingenuo, tra la sua e la figura di Tati?
Potrei riportare qui la trascrizione del colloquio che si è sviluppato tra me e lui attorno alla legittimità di un accostamento che partendo dai tratti comuni di pipa, altezza, struttura longilinea, ecc. mira a cogliere altro. Se non lo faccio qui è perché col tempo ho maturato l'impressione che riproduzioni analitiche di colloqui personali con l'IA finiscano con l'infastidire, come quando qualcuno ti racconta un suo sogno. E poi perché, non è stato un confronto facile, il nostro, in quanto questo mio maggiordomo, tanto bravo e intelligente e colto, è pure lui, e forse più di me, almeno in questo, vittima di stereotipi. Ha manifestato dunque non poca difficoltà ad accostare l'identità umana di un professore e l'identità umana di un artista, non avendoli 'vissuti' direttamente né indirettamente, ma attingendo informazioni e sensazioni solo dalla documentazione disponibile in rete e dai modelli per il suo impiego. Ma alla fine ha capito dove volevo arrivare, cioè a un qualcosa che, andando al di là degli stereotipi, e riflettendo sia l'immaginario dell'epoca sia la sua proiezione sul presente, cogliesse tratti comuni in individualità così diverse sul piano della ricezione pubblica. Ha dimostrato di capirlo e di darmi l'aiuto di cui avevo bisogno quando, associando i punti diversi del nostro dialogo, che s'è servito anche delle due immagini che avete visto più su (particolare non da poco, che merita approfondimenti: ma di questo poco dopo), mi ha proposto la formulazione di una 'storiella' centrata sulle due figure, alla cui stesura (provvisoriamente) definitiva siamo arrivati concordi, passando attraverso qualche inevitabile fraintendimento e puntualizzazione (come avviene quando ci si immedesima in un rapporto di collaborazione).
--------------------------------------- Passi lunghi e pensieri lenti
Nel dormiveglia, le immagini si incastrano come fotogrammi senza pellicola.
Due profili. Due pipe. Due silenzi.
Il primo, fotografico, è tagliato dalla luce e dall’ombra. Jacques Tati – lo riconosco dalla piega del cappello e dall’equilibrio tra corpo e gesto – cammina inclinato in avanti, come se l’aria stessa fosse resistenza comica. Il profilo è proteso, la pipa prolungamento del naso, strumento di misura del mondo.
L’altro, tracciato a inchiostro, è quasi identico eppure completamente diverso. È Aldo Visalberghi, disegnato in una caricatura che non esagera, ma semplifica. Anche lui porta la pipa come un’estensione del pensiero, ma la linea del collo, del mento e della fronte è più educata che teatrale, più riflessiva che comica. Lo sguardo sembra osservare dentro, più che fuori.
Eppure, nel sogno, si muovono insieme.
Camminano.
Tati fa un gesto rapido con la spalla: si aggiusta il cappello anche se non c’è vento. Un gesto inutile che diventa significato.
Visalberghi lo osserva, e non dice nulla. Accende la pipa con gesti minimi, e guarda una scritta sul muro: “uscita di sicurezza”. Sorridono entrambi, senza spiegare perché.
Si siedono su una panchina. Le gambe troppo lunghe, le spalle strette. Il rumore intorno è fatto di dettagli: un clacson stonato, un bambino che ride, una campanella lontana.
Tati ascolta, e in quel suono trova una battuta che non ha bisogno di voce.
Visalberghi prende un quaderno e scrive una parola sola: “attenzione”.
In quel momento i loro profili si sovrappongono — come nelle immagini: uno reale, l’altro disegnato, ma entrambi iconici, entrambi figure del margine.
Uno dice tutto senza parlare.
L’altro parla pochissimo, ma lascia tracce nelle parole degli altri.
Quando mi svegliai, ricordavo chiaramente solo una cosa:
la curva della pipa, identica in entrambi, come una parentesi che racchiude silenzio, gesto, pensiero.
E la sensazione che la forma possa contenere già il senso, se sai guardare abbastanza piano.
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Vado oltre, in questa ricostruzione, perché la 'storiella' del maggiordomo mi ha impressionato. Direi di più: mi ha commosso, nel senso che ha sollecitato in me un movimento profondo. Evidentemente lui, il maggiordomo, mi conosce bene. Ma forse proprio per questo mi porta fuori dei percorsi legittimi, in quanto giustifica e amplifica le mie allucinazioni.
Cosa c'è, mi sono chiesto allora, al fondo della figura di Visalberghi, fatto salvo il modo in cui l'ho vissuta ed elaborata, cosa c'è che giustifica l'associazione con Tati? C'è un qualcosa di più giustificabile anche su un piano oggettivo di quanto non è una (senile e nostalgica) rappresentazione personale? Mi sono chiesto: è dato di trovare, nelle parole dell'uno come dell'altro, degli elementi che giustifichino anche sul piano concettuale un'associazione che, proposta ora a chi non sa o sa altrimenti, rischia di risultare addirittura offensiva, sia che, per capirci, dall'esimio si guardi al clown sia che da questo si vada a quello? Per quanto riguarda Tati, uomo di poche parole, come si sa, non è stato facile trovare degli appigli. Ma ci sono riuscito quando ho rintracciato dei suoi giudizi sul personaggio cui aveva dato vita sullo schermo, ovvero Monsier Hulot. "Hulot - sostiene Tati - non è pieno di risorse come Charlot o aggressivo come i Fratelli Marx. È lunare - anche nell'approccio -, distratto, devoto, ineducato, tenero, una sorta di aristocratico. La taglia alta lo fa bersaglio, attira l'insolito come un parafulmine ... è l'incoscienza pura, l'impaccio tuttofare ... che supera tanto più facilmente gli ostacoli quanto meno ne suppone l'esistenza" (da Jean-Philippe Guerand, Jacques Tati, Gallimard, 2007). Bene, c'è pochissimo, in questa rappresentazione, del cattedratico Visalberghi, dei suoi testi, della sua ricerca. Ma c'è molto dell'atteggiamento che gli piaceva e comunque finiva con l'assumere, all'interno dello spazio accademico, negli anni difficili della contestazione e del conflitto studenti/docenti e pure tra docenti. Mi sono chiesto dunque se un simile modo di atteggiarsi fosse come una maschera provvisoria, alla Hulot, o rispondesse a un modo suo, apparentemente 'buffo', di guardare al mondo, e se questo modo di essere e di pensare una realtà in subbuglio non trovasse riscontro in suoi scritti di quel tempo. L'ho trovato nel contributo personale al volume collettaneo La mia pedagogia, uscito per Liviana nel 1972 (ma scritto prima, a ridosso del Sessantotto, come si evince anche dall'esordio: " ... ho deciso ... di prendere spunto da questi benedetti avvenimenti romani per mettere in luce quello che è forse il cardine delle mie idee pedagogiche, e che è riconducibile al motto pestalozziano 'la vita educa'"). Riporto qui il brano (pp. 300-302) in cui il tema del rapporto fra il ludico (inteso come attività caratterizzata da impegno, continuità e progressività) e il ludiforme (inteso come attività che alle tre caratteristiche aggiunge quella di puntare al raggiungimento di scopi esterni, evitando di essere fine a se stessa), assume una rilevanza che dal pedagogico approda al politico. Il fatto che nel mondo della scuola e dell'università (per esempio a livello di organizzazione didattica e di individuazione dei contenuti), e pure fuori del villaggio (a livello di ideologie e pratiche di intervento sociale), le cose non siano andate proprio nella direzione indicata lì nulla toglie alla saggezza di quel mondo 'tenero' e 'alto', 'aristocratico' (ricalcando Tati che parla di Hulot) di vedere le cose. Leggete qui: è roba di più di mezzo secolo fa, ma...
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