Come (e perché) si scrive
"Per destino anagrafico appartengo alla generazione di scrittori che non hanno mai preso in mano una penna. Niente mi mette più in crisi di un foglio bianco. Ogni volta che devo compilare un documento ufficiale le mie dita tremano di timore e imbarazzo". Così Alessandro Piperno, presentando, evidentemente anche a se stesso, il tema delle sue cinque lezioni sul 'vizio di scrivere', in Ogni maledetta mattina, appena uscito per Mondadori. Nel frammento sono associati due problemi di grosso peso, per quanto riguarda lo stato attuale della riflessione pedagogica, e non solo scolastica. Uno è il tema del 'destino anagrafico' di ogni generazione, cioè del peso che le diverse condizioni di generazione dell'esperienza di lingua scritta hanno sul modo in cui quella stessa generazione attua le pratiche dello scrivere. Scrivere in un mondo senza televisione, cioè senza l'esperienza anche prematura di una comunicazione densa, immersiva, sonora, dinamica, dunque senza un simile 'disturbo', è cosa diversa dall'accedere alla lingua scritta dal di dentro dell'universo audiovisuale. Allo stesso modo, scrivere dentro l'universo reticolare, dove tutti codici si intrecciano e si contaminano a vicenda, è cosa ben diversa che quel che era prima, quando tra i due mondi della stampa e dell'immagine in sonoro movimento erano, o si riteneva fossero, ben distinti. Il che sta a significare che tra le diverse generazioni l'incontro sul terreno dello scrivere, quando c'è, non è sempre agevole. A meno che non ci si impegni a riflettere, tutti, e ciascuno a modo suo, sull'opportunità o sulla necessità di un dialogo. Può la scuola favorire questo processo? Dovrebbe, io penso. Ma allo stato attuale non lo sta facendo. Può farlo la società? Di fatto lo sta facendo, ma secondo interessi che inevitabilmente fanno prevalere la dimensione economica (e dei suoi vettori, accettati o no) su quella etica (e dei suoi valori, condivisi o no). L'altro è il tema degli strumenti dello scrivere, che con quello delle generazioni certamente si collega. Pennino, penna stilografica, penna a sfera, macchina da scrivere, tastiera materiale del computer, tastiera virtuale del cellulare sono ambienti materiali e simbolici profondamente diversi, destinati a incidere in modo tutt'altro che univoco sulle pratiche dello scrivere e sulle relative rappresentazioni, consapevoli o no. Fatto è che oggi abbiamo a che fare con tre generazioni, o meglio con tre modelli generazionali (anche nel senso di 'generazione della scrittura'): uno di tipo testuale, segnato dalle dimensioni dell'astrazione dell'esperienza (individuale e collettiva), uno di tipo immersivo, caratterizzato dall'immersione nell'esperienza (individuale e collettiva), uno di tipo reticolare, dove cosa contano sono le connessioni tra i diversi elementi che compongono l'esperienza (individuale e collettiva). La scrittura fissa e circoscritta, la scrittura nel movimento dei suoni e delle immagini, la scrittura interattiva e dialogica. Va da sé che la scuola e il modo più diffuso di viverla, praticarla, rappresentarcela continuano ad essere profondamente dipendenti dal primo modello. Non che questo sia sbagliato. Ma, personalmente, credo sia profondamente errato ritenere che esista solo quel modello, e che altri, ammesso che esistano, non abbiano pari dignità. Il che, spiegherebbe, sempre a mio avviso, le difficoltà di scrittura delle nuove generazioni. E' un tema classico, che ha mezzo secolo di vita, nella mia memoria personale, ma che affonda dentro la cronaca da due millenni almeno, per chi abbia un po' di dimestichezza con la storia delle idee pedagogiche. E che si fa tanto più grave quanto più lo si lamenta ignorando che le diverse generazioni sono diverse anche per il mix tra i diversi 'generi letterari' (in senso tecnico) che praticano e implicitamente adottano nella loro esperienza extrascolastica (narrativo, argomentativo, dialogico, esclusivo o collaborativo rispetto ad altri codici, ecc.) Nella mia vicenda di 'ricercatore' (termine che uso qui non in senso accademico, ma in senso politico/esistenziale) m'è capitato più volte di occuparmene. Mi piace qui ricordare il fascicolo di Fare Scuola dedicato al tema, il settimo di una serie di Quaderni di cultura didattica che La Nuova Italia pubblicò tra il 1985 e 1991. Direttori della collana erano, assieme al sottoscritto, Franco Frabboni e Benedetto Vertecchi. In redazione figurava Emi Beseghi, mentre Paola Pallottino curava la selezione delle immagini. Il primo degli obiettivi dei Quaderni richiamava l'esigenza (cito dal 'manifesto' riprodotto negli otto numeri pubblicati) di "fornire agli insegnanti occasioni di riflessione e indicazioni di lavoro in entrambe le dimensioni che concorrono a costituire la loro competenza professionale, quella culturale e quella didattica". Del fascicolo (La scrittura, n. 7 della collana), accessibile e scaricabile interamente da Scaffale Maragliano (https://www.scaffalemaragliano.it/testi/1_Libri/1987_La%20scrittura.pdf), segnalo qui qualcosa di veramente prezioso. Un appunto su come scrive un poeta che riuscii ad ottenere, in ragione dell'amicizia con il figlio Giuseppe, da Attilio Bertolucci, allora (1987) alle prese con la fase finale di composizione del poema La camera da letto. Come potrebbe leggerlo e cosa vi troverebbe uno 'scrivente' dell'ultima generazione, 'vizioso' dei social?
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